Trattandosi di una valuta di riserva, il dollaro è ancora oggi la moneta più scambiata al mondo. Ad esso è legato il prezzo del petrolio e moltissimi Paesi lo accettano come valuta corrente. In un contesto simile, risulta evidente quanto possa essere rilevante il valore della valuta statunitense, che però proprio come tante altre è legato ad una serie di elementi intrinsechi all’andamento dell’economia. Un dollaro più forte o più debole dipende da fattori quali l’estensione della base monetaria, o ancora il livello degli scambi. Se l’apparato su cui questo sistema crolla, e con esso la fiducia globale nell’egemonia degli Stati Uniti come massima potenza mondiale, gli scenari evidentemente cambiano di conseguenza.
Approfondimenti
Pensiamo ad esempio all’ultima decina d’anni, un periodo piuttosto prolungato che ha visto una crescita costante del dollaro: dai minimi raggiunti nel 2011 fino al picco della fine del 2022, il dollaro americano è cresciuto del 45% rispetto al paniere generale delle valute dei mercati sviluppati (ma anche di quelli emergenti). Tenendo come riferimento l’inflazione di JP Morgan, la valuta USA ha registrato una valutazione eccessiva rispetto alla maggioranza delle valute dei mercati principali ed emergenti a parità di potere d’acquisto. Il problema principale è che in una situazione simile il dollaro è chiaramente rimasto ipervalutato troppo a lungo, ma tale valutazione di per sé non è stata in grado di scatenare un’inversione di tendenza sul lungo termine. Sembra in ogni caso che qualcosa sia destinato a cambiare.
Quali sono le conseguenza di un dollaro debole?
Prima di tutto, in presenza di un dollaro più debole le valute dei mercati emergenti dovrebbero tendenzialmente iniziare ad aumentare il proprio valore. Questo è un principio puramente teorico, anche perché le circostanze recenti ci hanno raccontato una storia un po’ diversa. A inficiare questo processo di crescita auspicato da molti sono stati gli strascichi della pandemia da Covid-19, che hanno causato nei Paesi emergenti importanti dinamiche recessive che difficilmente potranno essere corrette a stretto giro. Per alcuni, riuscire a recuperare valore rispetto ad un dollaro pur sempre indebolito sembra essere un’impresa, almeno per il momento. È importante sottolineare, inoltre, che il dollaro pare essersi indebolito di recente anche a discapito di altre importanti valute come lo Yen, il Franco svizzero e lo stesso Euro.
Gli effetti immediati di questo indebolimento sono relativi al prezzo del petrolio, che tende ad essere inversamente proporzionale rispetto a quello della moneta USA. In parole povere: al diminuire del valore del dollaro, sale il valore del greggio, e viceversa.
In linea puramente teorica, a fronte di un cambio di valuta non ci dovrebbero essere effetti sugli scambi mondiali: questo perché, se da una parte soffrono gli asset finanziari denominati nella valuta che ha perso valore, dall’altra si presenta un vantaggio per le aziende che esportano e possono quindi godere di un prezzo più competitivo per le loro merci. Teoricamente lo stesso principio si dovrebbe applicare anche al dollaro, ma non si tratta di un discorso così scontato: tutto dipende, essenzialmente, dalla velocità con cui si presenta il deprezzamento. L’unica certezza è che in una situazione simile si registrerebbe un calo degli investimenti in asset finanziari negli USA, un processo che in qualche modo ha già preso il via nel caso del Giappone.
Dollaro debole: gli scenari europei
In tempi non sospetti, gli investitori stranieri sono rimasti piuttosto defilati rispetto agli investimenti nel Vecchio Continente, e questo principalmente a causa della politica di tassi di interesse negativi e delle misure di allentamento quantitativo della BCE. Sembra, in ogni caso, che sia in atto un’importante inversione di tendenza. Con il restringimento dei tassi di riferimento tra BCE e Federal Reserve ci si potrebbe aspettare un aumento del valore dell’euro a discapito del dollaro.
I flussi di portafoglio potrebbero iniziare a sostenere l’euro anche in considerazione di un secondo fattore: il carry (la pratica di prendere del denaro in prestito da Paesi con tassi d’interesse più bassi) tra Stati Uniti ed Eurozona offre attualmente vantaggi meno interessanti. Le opportunità che si sono aperte per gli europei quando la Fed ha alzato in maniera decisa di tassi di interesse in anticipo rispetto alla BCE sono state decisamente gustose, e questo senza ombra di dubbio. In questo contesto, utilizzare asset denominati in euro per asset in dollari è stata un’occasione d’oro che in pochi si sono fatti sfuggire. Ad ogni modo, l’operazione sta diventando meno remunerativa del previsto: in uno scenario simile dovrebbero dunque diminuire sia le vendite di euro sia flussi verso il dollaro.
Il caso dello yen in Giappone
Secondo quanto riportato dall’analista Jens Søndergaard di Capital Group, l’apprezzamento dello yen giapponese rispetto al dollaro è certamente possibile, seppur “fragile”. Dopo anni di politiche monetarie estreme della Banca del Giappone (Boj) e dopo un lungo periodo in cui l’inflazione giapponese è rimasta bassa, sembra che la situazione stia per cambiare. Inoltre, alcune imprese sembrano aver raccolto l’appello del Governatore della BoJ Haruhiko Kuroda per un aumento dei salari superiore al tasso d’inflazione. Con un’inflazione stabile intorno al 2%, la BoJ avrà la possibilità di abbandonare gradualmente alcune delle sue politiche. La crescita dello yen, dunque, dovrebbe essere sostenuta dall’aumento dei rendimenti decennali. Inoltre, un rialzo dei tassi di interesse giapponesi e la potenziale volatilità derivante dall’incertezza sulla politica della BoJ potrebbero far aumentare i costi dei carry trade. Si tratta in ogni caso di scenari futuri sui quali gli stessi esperti preferiscono muoversi con i piedi di piombo, trattandosi di semplici previsioni che potrebbero essere ridimensionate dalla realtà dei fatti.