“Tassa piatta” è il risultato della traduzione letterale di questo termine preso in prestito dalla lingua inglese di cui il governo Meloni si è fatto vanto, ponendolo al centro della nuova Legge di Bilancio del 2023. Parliamo di una tassa che viene imposta generalmente sul reddito dapprima dei lavoratori autonomi e poi delle famiglie italiane e che, con l’approvazione prima del Senato e poi del Parlamento, dovrebbe scendere a quota fissa intorno al 15%, come già intuito in passato. Infatti, negli anni precedenti, la Lega Nord aveva già pensato di modificare gli scaglioni Irpef per i contribuenti titolari di partiva iva inseriti nel regime forfettario introducendo due fasce reddituali comprendenti 0-35.000 euro e 35.000-50.000 euro, ma con la nuova Legge di Bilancio del 2023, si auspica ad interventi più incisivi.
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La questione è incentrata su un punto di domanda ben preciso: all’Italia serve davvero la flat tax ad aliquota unica, o basterebbe ridurre le tasse sul reddito in maniera progressiva? Per questo il tema è tornato sotto l’occhio del ciclone, visto il nuovo insediamento politico di stampo centro-destra, tenendo come punto di riferimento una soglia d’azione fino a 100.000 euro.
Come avviene per tutte le nuove proposte, ci si è schierati dalla parte dei pro e dei contro: tra i vantaggi indotti dall’inserimento della flat tax si spera sicuramente in una diminuzione dell’evasione fiscale e un alleggerimento della pressione fiscale per le imprese e per i cittadini; ma è bene tenere a mente anche il punto critico che si potrebbe riscontrare nel calo delle entrate contributive e tributarie.
Si è pensato di introdurre anche un nuovo regime di flat tax incrementale, che agisce sull’aumento del reddito negli anni, e non sulla cifra totale dichiarata, al fine di applicare un’altra aliquota fissa certamente più conveniente di quelle stabilite dall’Irpef.
Resterebbe invece invariata l’esenzione per i redditi dichiarati fino a 7.000 euro e inseriti quindi nella no tax area.