Secondo una nozione largamente condivisa per salario minimo si intende la retribuzione minima che dovrebbe essere garantita a chi lavora, per una determinata quantità di lavoro. Si tratta di una definizione che scaturisce dalla “General Survey of the reports on the Minimum Wage Fixing Convention” del 1970, un documento redatto dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La nozione di salario minimo spesso viene confusa con quella di reddito minimo, che rappresenta invece il reddito minimo vitale che dovrebbe essere riconosciuto ad ogni individuo per assolvere alle proprie necessità quotidiane.
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Il fine ultimo del salario minimo dovrebbe essere sempre quello di evitare che il lavoratore viva in condizione di povertà garantendo una retribuzione adeguata e in ogni caso proporzionale al lavoro svolto. Di fatto, con l’introduzione del salario minimo, lo Stato pone una soglia minima nella contrattazione collettiva, evitando che la libera determinazione dei salari operata dal mercato possa essere inferiore a tale soglia e quindi non garantire un tenore di vita dignitoso al lavoratore. L’obiettivo del salario minimo può essere raggiunto attraverso modalità differenti.
Il legislatore può introdurre questa soglia aumentando il salario oltre la soglia di sussistenza, garantendo il cosiddetto “minimo biologico”. Il salario minimo può essere garantito anche aumentando la retribuzione dei lavoratori la cui paga è inferiore alla soglia di sussistenza, portandola verso il limite inferiore della classe media.
Cosa prevede la Costituzione
Tutti i lavoratori hanno diritto ad una retribuzione dignitosa come sancisce l’articolo 36 della Costituzione che esplicitamente riconosce il diritto ad ogni lavoratore ad “una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”. Anche se la carta costituzionale prevede formalmente l’istituzione di una soglia minima di reddito, di fatto non sono state mai approvate misure concrete che danno seguito al dettato Costituzionale.
I due principi generali che sono sanciti nell’articolo 36 sono sufficienza e proporzionalità. La volontà del legislatore fu chiaramente quella di non demandare alla legge il compito di stabilire un salario minimo per non condizionare in alcun modo l’azione sindacale. Neanche l’articolo 39 che prevede l’istituzione di contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, ha avuto l’efficacia che avrebbe dovuto avere garantendo l’applicazione di condizioni erga omnes, per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.
La mancata efficacia erga omnes è stata da sempre oggetto di dibattiti e di tensioni proprio per il fatto che molti lavoratori sono stati esclusi dall’applicazione dei contratti collettivi per la mancata adesione dei datori di lavoro alle associazioni datoriali.
Il Jobs Act
Con il Jobs Act introdotto nel 2014, il legislatore italiano, per la prima volta, ha approvato una norma di delega al Governo finalizzata proprio all’introduzione di un salario minimo anche per quei settori non regolamentati dai contratti collettivi stipulati tra i datori di lavoro e le parti sociali. Una norma che poi è rimasta del tutto inapplicata perchè il governo non ha mai dato seguito all’attuazione della delega che fra l’altro venne osteggiata apertamente dai sindacati.
Il salario minimo garantito: il progetto di legge
L’ultimo testo della proposta di legge il cui iter è già iniziato in Commissione alla Camera in data 11 luglio 2023, prevede per tutti i rapporti di lavoro il diritto a un trattamento economico sufficiente e proporzionato al lavoro svolto, che non sia inferiore al trattamento previsto dai contratti collettivi stipulati da sindacati e datori di lavoro e che valga sia per i lavoratori subordinati che per tutti i rapporti di lavoro diversi da quello subordinato. Il testo di legge prevede l’applicazione di una soglia minima salariale inderogabile, pari a 9 euro all’ora.
La soglia minima rappresenterebbe solo un limite minimo da non superare, ma la formulazione del testo di legge lascia ampio margine al contratto collettivo per regolare tutte le altre voci retributive. Una proposta di legge che è stata fortemente osteggiata dalle associazioni datoriali, perchè priverebbe la contrattazione collettiva di quel ruolo cruciale finalizzato al rispetto delle esigenze dei lavoratori, risultando altresì molto limitativa, secondo le associazioni di categoria, rispetto all’effettiva tutela del trattamento globale ed economico da riconoscere ai lavoratori. Secondo i detrattori, questa imposizione causerebbe inoltre un innalzamento del costo del lavoro a carico delle aziende.
L’attuale situazione in Italia
L’Italia è uno dei pochi paesi dell’Unione Europea che non prevede una soglia minima di retribuzione, insieme ad altri cinque paesi (Finlandia, Danimarca, Svezia, Cipro e Austria). In sei paesi dell’Ue il tetto minimo di paga oraria è superiore ai 9 euro all’ora previsti dalla proposta di legge presentata in Parlamento. Infatti in Germania, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Irlanda, il salario minimo oscilla tra gli 11 e i 13 euro.
Secondo una recente stima presentata dall’Inps, i lavoratori italiani che guadagnano meno di 9 euro lordi l’ora sono circa 4,6 milioni. Se si sommano i ratei di tredicesima e Tfr, sarebbero 1,9 milioni gli italiani che percepiscono una retribuzione oraria inferire ai 9 euro lordi. Le categorie che percepiscono salari più bassi sono quelle legate al comparto agricoltura e i lavoratori domestici.