Con oltre 2 milioni di commenti e duecentomila like è diventato in questi giorni virale il video, dell’ingegnera edile 28enne Ornella Casassa.
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“Ho detto no. 900 euro a partita Iva vuol dire 750 euro nette. Io, a 27 anni con quella cifra non posso vivere, non mi ci pago l’affitto. Non stiamo parlando di gente che non ti può pagare, ma di gente che sa che il sistema è così e non ti paga.”
Il tema è quindi ben chiaro: il lavoro.
Si scaglia in particolar modo contro il “working poor”, anche detto lavoro povero, fenomeno esploso da principio negli Usa e che ora sta interessando molti paesi europei.
Nel nostro Paese i livelli di rischio di scivolare in situazioni di miseria sembrano più alti che in altri luoghi.
Ma di cosa stiamo parlando?
Negli ultimi 15 anni il dato sull’in-work-poverty mostra un notevole aumento in Italia. Nel 2017 i lavoratori poveri (impiegati da almeno sette mesi) erano pari al 12,3% (9,4% nel 2006). Se si considera però i lavoratori assunti per almeno un mese, questo dato cresce al 13,2% (10,3% nel 2006).
Uno studio LOSAI-INPS rivela come, in Italia, persista una stasi dei salari e sia in crescita il lavoro atipico: meccanismi che comportano, anche nel lavoro dipendente privato, una tendenza nel rischio di bassa retribuzione
Stando all‘Osservatorio Inps pubblicato a dicembre scorso, complice il precariato diffuso che riduce il numero delle giornate lavorative, il reddito medio annuo dei lavoratori dipendenti e autonomi nella fascia 20 -24 anni, si è fermato a 9.911 euro, dato inferiore se consideriamo le sole lavoratrici.
Fino ai 30 anni non si riesce ad avere un compenso di mille euro al mese con tredicesima.
Stando ai dati l’Istat la soglia di povertà assoluta si attesta attorno ai 10.200 euro (considerando aree metropolitane del Nord Italia).
Il fenomeno dei working poor rappresenta dunque una sfida complessa e di rilevanza per il nostro Paese e per combatterla si rende necessario agire con misure di policy adeguate.