Ridurre le tasse sul lavoro senza aggravare i conti pubblici: è questa la sfida che domina la nuova Manovra. In un Paese in cui il prelievo su stipendi e contributi resta tra i più alti del mondo industrializzato, l’esecutivo punta a dare ossigeno alle buste paga e a ristabilire un equilibrio tra il carico fiscale sul lavoro e quello che grava su imprese e consumi. Il disegno non è semplice: ogni euro sottratto al cuneo fiscale deve essere rimpiazzato altrove per rispettare il percorso di rientro di deficit e debito, sostenuto anche da giudizi positivi dei mercati.
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Nel «stato di previsione dell’entrata» sono già indicate le poste che, nei prossimi tre anni, dovrebbero finanziare gli sgravi: un mosaico di aggiustamenti che tocca imposte societarie, Iva, accise e tabacchi, affiancato da misure anti-evasione e da un calendario di interventi con orizzonte pluriennale.
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Perché il cuneo fiscale resta un’emergenza nazionale
Il punto di partenza è il divario, ormai storico, tra il peso del lavoro in Italia e la media delle economie avanzate. Nel 2024 il cuneo fiscale è aumentato di 1,61 punti, arrivando al 47,1% del costo del lavoro: un livello decisamente superiore alla media Ocse, ferma al 34,9%. Questo dato colloca l’Italia al quarto posto per ampiezza del cuneo, subito dopo Belgio, Germania e Francia, e spiega perché l’erosione dei salari netti sia diventata un tema sociale oltre che economico.
La pressione sul lato contributivo e fiscale si riflette direttamente sulla busta paga: il salario medio annuo al netto delle imposte in Italia si attesta a 41.438 dollari nel 2024, contro una media Ocse di 45.123 dollari. Non solo: il confronto europeo mette in luce come la Spagna raggiunga 43.034 dollari, mentre economie in rapido sviluppo come Polonia e Turchia non siano lontane, con valori rispettivamente nell’ordine di 39.200 dollari e 39.000 dollari.
Tasse: un cane che si morde la coda
Questi numeri, certificati da organismi internazionali come l’Ocse e il Fondo monetario, mostrano un problema strutturale: l’eccessivo peso del prelievo disincentiva l’occupazione stabile e indebolisce il potere d’acquisto, soprattutto quando l’inflazione riduce la capacità di spesa delle famiglie. Per recuperare terreno servono interventi che incidano sulla piattaforma del prelievo, evitando però scorciatoie che compromettano la sostenibilità dei conti nel medio periodo. Ecco perché l’azione del governo si muove lungo due binari: alleggerire il lavoro e, al contempo, rafforzare fonti alternative di gettito, così da sostenere la crescita senza sbandare sui target di finanza pubblica.

Il cuore della Manovra: taglio dell’Irpef e tutela dei saldi
Il baricentro dell’intervento è la rimodulazione dell’Irpef per i lavoratori dipendenti con redditi medi. La misura cardine prevede la riduzione dell’aliquota dal 35% al 33% per chi percepisce una retribuzione annua lorda compresa tra 28.000 e 50.000 euro. L’obiettivo è rendere più conveniente il lavoro dipendente, costruendo un sentiero di crescita del reddito disponibile che attenui l’impatto di prezzi e tassi elevati.
Al tempo stesso, l’impianto della Manovra è disegnato per non deviare dal percorso di rientro di deficit e debito: tagliare la tassazione sul lavoro sì, ma senza scassare i saldi. Da qui discende la scelta di reperire risorse in settori diversi, così da rispettare il quadro programmatico e consolidare quella credibilità che negli ultimi mesi ha trovato riscontro nei giudizi delle principali agenzie. .
Il taglio dell’Irpef non è pensato come un bonus estemporaneo, ma come un pezzo strutturale dell’architettura fiscale: l’idea è che una minore pressione sui redditi da lavoro aumenti la propensione al consumo e riduca la distanza con la media Ocse, senza rinunciare alla prudenza di bilancio. È un equilibrio complesso, che richiede coperture credibili e stabili per evitare che lo sconto fiscale di oggi diventi il problema di domani. Proprio per questo, nel «stato di previsione dell’entrata» si elencano con precisione i capitoli destinati a sostenere lo sgravio, vincolando la riduzione del prelievo a un piano triennale di gettito alternativo.

Da dove arrivano le risorse: Ires, Iva, accise e tabacchi
La coperta è corta, e la Manovra lo dichiara senza giri di parole: per abbassare le tasse sul lavoro occorre rafforzare altre entrate. Il piano indica un aumento dell’Ires per circa 6 miliardi, un incremento dell’Iva nell’ordine di 1,6 miliardi, maggiori introiti da accise per circa 1,7 miliardi e un contributo dai tabacchi atteso in area 1,5 miliardi. Non si tratta solo di alzare aliquote: una quota rilevante del maggior gettito Iva deriva dal rafforzamento degli strumenti anti-evasione messi a regime negli ultimi anni, dalla fatturazione elettronica agli scontrini telematici, fino alle Lipe (liquidazioni periodiche).
La decisione sulle accise
In parallelo, è previsto un riallineamento delle imposte sui carburanti: la leva ambientale accompagna l’aggiustamento tra benzina e gasolio, con un alleggerimento sulla prima e un incremento sul secondo. Considerando la maggiore diffusione dei motori diesel, l’effetto complessivo stimato per il triennio è di circa 1,7 miliardi di gettito aggiuntivo. Sul fronte dei prodotti da fumo, l’incremento del prelievo è presentato anche con una motivazione di tutela della salute pubblica, oltre che come capitolo di copertura. In sintesi, la strategia sposta una parte del carico dal lavoro ai consumi e alle rendite d’impresa, contando su basi imponibili più ampie e su comportamenti più tracciabili.
Resta tuttavia una scelta di policy che va monitorata: se i consumi dovessero rallentare, soprattutto in presenza di tassi elevati, l’elasticità del gettito Iva e delle accise potrebbe risultare inferiore alle attese. Per questo l’integrazione tra lotta all’evasione, calibrazione delle aliquote e crescita è l’elemento cruciale per mantenere l’obiettivo di alleggerire il lavoro senza scoperture.

L’orizzonte 2026-2028: effetti sul gettito e impatto sistemico
Il quadro programmatico guarda al triennio 2026-2028 e quantifica l’effetto netto delle misure. Nel periodo considerato, le imposte sui redditi dovrebbero alleggerirsi di circa 10 miliardi, con una priorità esplicita al «sostegno ai redditi» che si traduce in 11,95 miliardi di Irpef in meno rispetto allo scenario tendenziale. È un punto importante: non significa che l’Irpef crollerà in valore assoluto, ma che la sua crescita sarà più lenta di quanto sarebbe avvenuto senza gli interventi. A compensare, oltre ai capitoli già menzionati, contribuiscono le imposte sostitutive, attese in aumento per circa 2,2 miliardi. Il saldo, tenendo conto dei vari movimenti, resta positivo per circa 9,75 miliardi, grazie anche a misure tecniche che coinvolgono il sistema finanziario: le banche sono chiamate ad anticipare risorse tramite l’ulteriore rinvio dei crediti legati alle imposte differite, liberando spazio immediato per i conti pubblici. Nel complesso, la Manovra disegna un percorso graduale che punta a migliorare il reddito disponibile dei lavoratori e a stimolare la domanda interna, senza pregiudicare la sostenibilità del bilancio.
La “scommessa” sull’inflazione
La sfida sarà la tenuta nel tempo: l’efficacia del taglio dell’Irpef dipenderà dall’evoluzione dei prezzi, dalla dinamica salariale e dalla capacità di mantenere stabile il gettito alternativo. La fase parlamentare, con l’esame al Senato e i successivi passaggi, potrà affinare la calibrazione degli interventi, ma l’ossatura è chiara: alleggerire il lavoro, rafforzare le basi imponibili meno distorsive, irrobustire la compliance e preservare i saldi. Se questi tasselli si incastreranno come previsto, il Paese potrà ridurre gradualmente la distanza con la media Ocse e recuperare competitività senza rinunciare alla prudenza necessaria in una congiuntura ancora complessa.
